Allo sviluppo del progetto europeo quadriennale hanno contribuito ricercatori dell’ateneo veronese
Biotecnologie che riducono i consumi energetici e le emissioni di gas serra restituendo all’ambiente acqua depurata. Questi i risultati di Smart-plant, progetto Horizon 2020 finanziato dalla Commissione europea per valorizzare e trasformare gli impianti di depurazione esistenti in vere e proprie bioraffinerie in grado di recuperare, dalla acque reflue, materiali di valore economico come cellulosa, fosforo, metano e bioplastiche.
Partito a giugno 2016, il progetto si avvia alla conclusione, contando all’attivo l’implementazione di 9 tecnologie innovative a ridotta impronta di carbonio per la depurazione di acque reflue, un sistema intelligente di supporto alla decisione e diversi prodotti bio-based recuperati dalle stesse acque reflue.
Il gruppo di ricerca in Ingegneria chimica dell’ambiente e dei bioprocessi del dipartimento di Biotecnologie dell’università di Verona ha contribuito in maniera strategica alla ricerca, con studi dedicati all’implementazione di 2 delle tecnologie messe a punto durante l’azione d’innovazione europea.
Le tecnologie sono state implementate, testate e validate fino a scala industriale nell’impianto di depurazione di Carbonera (Treviso), gestito dall’azienda Alto Trevigiano Servizi.
Un primo studio, dal titolo “Sieving of municipal wastewater and recovery of bio-based volatile fatty acids at pilot scale”, è stato pubblicato sulla rivista scientifica Water Research, con autori Cinzia da Ros e Vincenzo Conca coordinati da Nicola Frison e David Bolzonella, docenti di Impianti chimici in ateneo, in collaborazione con l’università Politecnica delle Marche.
“Il recupero di materia organica primaria dalle acque reflue municipali permette di ottenere per ogni abitante fino a 10 kg di cellulosa (carta igienica) per anno” spiega Nicola Frison. “In questo lavoro, il processo di recupero della cellulosa tramite un filtro rotativo dinamico è stato accoppiato ad un’unità di fermentazione acidogenica per produrre acidi grassi volatili, potenzialmente recuperabili e utilizzabili in diversi processi industriali come precursori chimici di origine biologica. In questo modo, sarebbe potenzialmente possibile valorizzare il fango di depurazione trattato fino a 100 € per tonnellata (peso secco), rendendo più circolare il trattamento delle acque reflue municipali”.
Lo studio “Long-term validation of polyhydroxyalkanoates production potential from the sidestream of municipal wastewater treatment plant at pilot scale” è stato pubblicato sulla rivista scientifica Chemical Engineering Journal, e condotto su un impianto a scala pilota.
La ricerca ha dimostrato, in condizioni reali, la fattibilità di integrare processi avanzati di rimozione dell’azoto da digestati anaerobici con la produzione di precursori di bioplastiche da fanghi di depurazione. “Grazie all’applicazione di particolari regimi operativi è possibile rimuovere via-nitrito l’azoto contenuto all’interno delle “acque madri” e selezionare al contempo una biomassa in grado di accumulare elevate percentuali di bioplastiche all’interno delle cellule” evidenzia Frison. “Tale tecnologia permetterebbe di ottenere un ricavo fino a 11 volte superiore a quello ottenuto dalla sola produzione di biogas in un impianto convenzionale di depurazione, incrementando così la sostenibilità del processo e la possibilità di upscaling dello stesso a livello industriale. In questa prospettiva, gli impianti di depurazione esistenti potrebbero diventare vere e proprie bioraffinerie volte al recupero di prodotti ad alto valore aggiunto”.
La ricerca “A knowledge discovery framework to predict the N2O emissions in the wastewater sector” pubblicata sulla rivista scientifica Water Research, ha visto la collaborazione tra i ricercatori del dipartimento di Biotecnologie dell’ateneo veronese, l’università Politecnica delle Marche e l’università di Brunel (Inghilterra).
“L’analisi dei dati è stata utilizzata per monitorare e predire le emissioni di N2O (ossido di diazoto) da un impianto in piena scala per la rimozione via-nitrito dalle acque di ritorno della digestione anaerobica” spiega Frison. “Lo studio ha messo in evidenza che le emissioni totali di N2O prodotte dal processo rappresentavano fino al 7.6% dell’azoto trattato, contribuendo fino al 97% sull’impronta di carbonio complessiva di tutto il sistema. L’utilizzo combinato dei modelli SVM (macchina di supporto vettoriale) e SVR (regressione di supporto vettoriale) ha permesso di predire in maniera accurata l’accumulo e successiva emissione di N2O all’interno del sistema, permettendo così di evitare l’utilizzo di costosi sensori ad hoc che spesso necessitano di coste e frequenti manutenzioni”.
Fonte: Ufficio Stampa Università di Verona