Il comparto della chimica ha i numeri per offrire grandi prospettive di impiego ai neolaureati. Eppure gli aspiranti chimici latitano. I numeri del fenomeno e le strategie di intervento nel campo dell’istruzione e dell’università
Il comparto della chimica è uno dei più produttivi in Italia, con quasi tremila imprese, più di centomila addetti e un fatturato annuo di 56 miliardi di euro. Al suo interno, l’ambito della ricerca sta crescendo molto: basti pensare che ogni anno gli investimenti da parte delle aziende (e in particolare di Federchimica, leader del settore) superano i 500 milioni e negli ultimi dieci anni le assunzioni sono cresciute del 70%, con un fabbisogno annuo di laureati e diplomati specializzati superiore alle cinquemila unità. Dopo medicina, la laurea in chimica è infatti quella che maggiormente assicura ai laureati un impiego nel loro ambito di competenze.
Il paradosso del mismatch.
Cifre simili farebbero supporre un forte afflusso di giovani studenti verso le facoltà scientifico-tecnologiche e gli Istituti tecnici superiori (ITS). L’Italia sconta invece un forte ristagno della specializzazione universitaria in questo settore. I dati parlano chiaro: meno dell’1,5% di laureati nelle discipline “Stem” (acronimo inglese che identifica le facoltà a indirizzo scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico), contro una media europea superiore al 3%. Per questo motivo, il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro (noto col termine inglese di mismatch) nel settore chimico non solo non trova soluzione (attualmente si aggira intorno al 35%), ma è destinato ad aggravarsi nei prossimi anni. È significativo quanto avvenuto nella filiale italiana della tedesca Bayer, una delle industrie chimiche e farmaceutiche più importanti del mondo, che in Italia ha quasi duemila dipendenti e sviluppa un fatturato di un miliardo di euro: vista la mancanza di laureati in possesso delle competenze richieste, l’azienda ha dovuto provvedere con proprie risorse alla formazione dei nuovi assunti.
Gli investimenti nel settore dell’istruzione e della formazione professionale.
Ecco perché scuola, università e mondo dell’industria si stanno attivando per invertire una tendenza che influisce negativamente sui livelli occupazionali e danneggia la competitività economica del nostro Paese. Il primo passo è, come sempre, da fare in ambito culturale: il vero e proprio crollo di iscrizioni negli istituti tecnico-professionali a beneficio di altri indirizzi deriva dal pregiudizio crescente verso un titolo di studio considerato poco appetibile, e ciò contro ogni evidenza dettata dalle statistiche prima ricordate. A questo proposito, Federchimica lamenta la flessione dei finanziamenti statali nei percorsi di alternanza scuola-lavoro e investe risorse sempre crescenti nell’orientamento degli studenti e degli insegnanti delle scuole superiori di primo e secondo grado.
A un livello superiore, è necessario un maggior coordinamento tra le richieste dell’industria e la formazione assicurata dall’università, che deve essere pronta ad ampliare il settore della ricerca (come ad esempio la chimica delle formulazioni) e quello della professionalità (come nel caso del “Regulatory Affairs Manager”, un esperto di normativa, con competenze in marketing e assistenza).
Sul piano politico, la questione va affrontata in termini di finanziamenti alla formazione scolastica e universitaria, di maggiore attenzione ai settori della ricerca e dello sviluppo, di agevolazione della flessibilità nell’impiego, tramite la riforma delle norme sui contratti a termine e sull’apprendistato.
Fonte: Diritto.news